Blaise Pascal
A chi non è capitato, in modo più o meno istintivo, più o meno colto o raffinato, di interrogarsi sulla propria presenza nel mondo e in questo mondo piuttosto che in altri possibili mondi, sulle ragioni del proprio esserci e del proprio vivere, sulla propria identità più intima, sugli scopi di un’esistenza breve, fuggevole, ineluttabilmente destinata alla morte? Pascal espresse in forma sapiente ed elegante questo interrogativo:
“Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cosa è il mondo, né chi sono io; io mi trovo in una ignoranza terribile di tutte le cose; io non so che cos’è il mio corpo, che cosa sono i miei sensi, che cosa la mia anima e questa parte stessa dell’io che pensa ciò che io dico, che riflette su tutto e su se stesso, e che non si conosce, non più di quanto non conosca tutto il resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi chiudono, e mi trovo attaccato ad un angolo di questa vasta estensione, senza che io sappia perché io sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché quel poco tempo che mi è dato di vivere mi è assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Io non vedo che infinità in tutte le parti che mi racchiudono, come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto quello che so è che devo presto morire, ma ciò che ignoro maggiormente è questa morte stessa che io non saprei evitare”1.

Illustration of a Blaise Pascal
Da tale interrogativo, o piuttosto da tali molteplici interrogativi, in taluni casi, scaturisce la possibilità di considerare come l’uomo sia, ad un tempo, un niente rispetto al tutto e un tutto rispetto al niente, come cioè egli sia sospeso tra il tutto e il nulla, tra la vita infinita e l’impossibilità stessa di sussistere2; come la sua condizione naturale sia quella della contingenza, della precarietà, e come essa sia avvolta dal mistero e insieme dall’angoscia di non riuscire a darsi risposte adeguate. Da esso può derivare altresì uno stupore completamente negativo di fronte alla morte per il fatto che non solo l’uomo debba morire, al pari di tutti gli altri esseri non umani esistenti, ma sia costretto a morire essendo cosciente di dover morire ed essendo per contro inconsapevole di cosa significhi, di cosa implichi realmente il morire al di là della certezza generica che esso comporti solo il ritorno al nulla originario.
Ma, se l’uomo ignora la realtà in cui è immerso, la verità della sua vita, la vera essenza della sua anima, non può d’altra parte che assecondare l’innata e spontanea curiosità di chiedersi appunto quale sia il senso di tutto ciò che lo circonda e lo pervade, di tutto ciò che percepisce e avverte anche dentro di sé. Certo, si può anche non pensare a tutto ciò, non porsi tanti problemi, vivere alla giornata, gettarsi nelle distrazioni della vita quotidiana, sebbene ciò non dissolva il senso di infelicità che accompagna l’esistenza, là dove appare chiaro che, se l’uomo è dotato di ragione, evidentemente essa deve avere una funzione che attende di essere esercitata non già stoltamente ma correttamente. Ma in che modo si può essere ragionevolmente sicuri di fare un uso retto della ragione? Rivolgendosi forse alla forma più universale di conoscenza, ovvero alla scienza? Pascal, da scienziato, risponde che la scienza spiega, entro certi limiti, i fatti della natura, i fenomeni verificabili, sperimentabili, riproducibili, ma nulla sa dire di preciso sugli stati d’animo, su emozioni e sentimenti, sulle passioni, che sono parte integrante dell’esistenza umana3.
Dunque, come se ne esce? Qui interviene la risposta filosoficamente sconcertante, o almeno inconsueta, di Pascal per la sua epoca storica: in realtà, egli argomenta, la ragione non è solo pura logica, non è semplice attività ipotetico-deduttiva, né mera acquisizione e organizzazione di dati sperimentalmente accertati, ma è anche intuizione, istintività gnoseologica, intuizione intellettuale, percezione non mediata ma immediata di un principio o di una verità, sulla cui base la ragione può poi venire esercitando la sua funzione discorsiva. I princìpi si sentono, si percepiscono istintivamente, intuitivamente, immediatamente, mentre le proposizioni che vi fanno riferimento o ne discendono si dimostrano per mezzo di argomentazioni logiche. La verità è sempre l’esito del confluire della facoltà intuitiva e della facoltà dimostrativa in quel momento di sintesi che è il giudizio, il giudizio conoscitivo dell’intelletto. Pascal distingue, quasi a scopo di chiarezza didattica, tra ragione e cuore, tra ragioni logiche della ragione e ragioni istintive o intuitive del cuore, ma in realtà egli intende sottolineare come l’attività razionale dell’uomo non sia comprensiva esclusivamente di una facoltà logico-argomentativa, logico-deduttiva, logico-dimostrativa, bensì anche di una propedeutica facoltà intuitiva che affonda le sue radici nella parte più sensibile, più emotiva, più sentimentale (ma non in un deteriore senso sentimentalistico) della psiche umana, in quella parte della psiche in cui può essere intuita, può essere semplicemente colta come oggetto di un sentire immediato una verità che potrà successivamente o contestualmente essere dimostrata con categorie rigorosamente logiche e scientifiche. Ciò comporta che il cuore, inteso nel suo significato biblico, è organo centrale di tutte le facoltà della struttura razionale e spirituale dell’uomo: organo centrale di conoscenza intuitiva, di conoscenza intellettiva e concettuale, di coscienza morale, di fede religiosa. Il cuore è il tronco della “vita” e tutte le sue facoltà razionali, che agiscono in campo gnoseologico e teorico, etico, religioso, sono le sue ramificazioni, sono le diverse articolazioni della sua poliedrica vitalità (In sostanza, tra ragione e cuore intercorre un rapporto di reciproca funzionalità, come chiariva in modo esaustivo già4.
Il concetto pascaliano di cuore sembra assomigliare per molti versi al concetto husserliano di precategoriale, di un eidos, di un’essenza mentale nella sua pur significativa e unitaria indeterminatezza suscettibile di essere indagata, sul piano analitico e categoriale, nelle sue più interne e intricate articolazioni. Pascal viene proponendo in nuce il problema della ragione, contrapponendo ad una striminzita razionalità logica e matematica, come avrebbe fatto più tardi Husserl, in modo più sistematico e per via fenomenologica, una razionalità più aperta, larga, che il filosofo tedesco avrebbe chiamato una razionalità ”di gran cuore”, e a cui egli assegnava la funzione di accogliere nei suoi quadri logico-categoriali il più vasto mondo dell’esperienza tramite una rivisitazione critico-intenzionale del suo livello precategoriale e funzionale ad una radicale riscoperta teleologica “del mondo della vita”. La fenomenologia ha infatti opposto alla ridotta o circoscritta razionalità della logica e della matematica, quel che Husserl chiamava una razionalità “di gran cuore”, una razionalità meno univoca e riduttiva. Quello che la fenomenologia ha elaborato prevalentemente sarebbe stata una nuova immagine della ragione5.
In questo senso, non si dava forma o genere di conoscenza che non affondasse le sue radici non solo nelle più nobili ed eteree zone noetiche del pensiero ma anche nella corporeità esistenziale della soggettività umana. Non è detto, per Pascal, che ciò che viene intuito si traduca sempre in sicuro oggetto di conoscenza scientifica, o perché frutto di falsa o presunta intuizione, o perché non logicamente esplicabile con i mezzi intellettivi e scientifici disponibili, ma quel che egli si sforza di chiarire sono le modalità in cui la dinamica del conoscere razionale viene svolgendosi, in cui viene attuandosi il processo di acquisizione della verità. Gli spiriti fini sono coloro che hanno “buona vista” e vedono la verità da lontano pur senza poterne determinare esattamente la composizione, le caratteristiche, le peculiarità (come quando si avvista da lontano un villaggio senza poterne distinguere esattamente le case, le strade, le piazze e via dicendo), anche se può talvolta capitare che essi siano altresí dotati di “spirito di geometria”, mentre gli spiriti geometrici sono coloro che, pur potenzialmente capaci di porsi il problema di un tutto, di un insieme o di un intero, sono abituati a lavorare su realtà come su proposizioni ben definite, circoscritte, per poterne studiare non già intuitivamente ma analiticamente la struttura, i nessi interni, le possibili esplicazioni, senza curarsi generalmente di quale possa essere il contesto complessivo in cui quella realtà, proposizione o discorso possano essere meglio collocati e significati.
Ora, se questo è o fosse lo scenario teorico che viene delineandosi nella riflessione pascaliana intorno alle “ragioni della ragione” e “alle ragioni del cuore”, bisognerebbe riconoscere a Pascal il merito storico e filosofico di aver cominciato ad elaborare, con largo anticipo su taluni rivoluzionari sviluppi della gnoseologia e dell’epistemologia contemporanee, una teoria oltremodo complessa e sofisticata della razionalità in senso stretto, della razionalità nella sua specifica valenza epistemica, alla luce della quale ogni comparto dello scibile, e tanto più i temi e gli argomenti di più tradizionale pertinenza spirituale, siano tenuti a render conto di una loro genesi molto più complessa e integrata della genesi meramente teoricistica ad essi assegnata persino da versanti molto aggiornati della tradizione filosofica. Ciò non toglie, tuttavia, che il fuoco del ragionamento pascaliano sia da identificare con la distinzione metodologica tra ciò che si può conoscere per via essenzialmente logico-dimostrativa e ciò che si può conoscere, altrettanto legittimamente fino a prova contraria, per via intuitiva e per una speciale illuminazione della mente e dello spirito. Dio, per esempio, non si può dimostrare, ma l’intuizione della sua esistenza non è necessariamente fasulla e conserva valore virtualmente conoscitivo (lo stesso valore delle ipotesi scientifiche) sino a che non si possa dimostrare e logicamente e sperimentalmente il contrario. Ma, come si è cercato di mostrare, oggetto di intuizione, per Pascal, non sono solo i misteri dell’esistenza, della morale e della religione, bensì anche i princìpi primi, i fondamenti assiomatici, i presupposti teorici delle forme conoscitive più astratte della razionalità e della scienza. C’è una conoscenza della ragione e c’è una conoscenza del cuore ma la conoscenza del cuore è indispensabilmente e strutturalmente funzionale alla conoscenza della ragione:
«Il cuore sente che ci sono tre dimensioni nello spazio, e che i numeri sono infiniti; e la ragione dimostra poi che non vi sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia il doppio dell’altro. I princìpi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per vie differenti. Ed è altrettanto inutile e altrettanto ridicolo che la ragione domandi al cuore delle prove dei suoi primi princìpi, per volervi acconsentire, quanto sarebbe ridicolo che il cuore domandasse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per volerle ricevere»6.
Bisogna dunque guardarsi da questi due eccessi: «escludere la ragione, non ammettere altro che la ragione»7, tenendo peraltro presente, circa il rapporto tra ragione e fede religiosa, che quest’ultima, ove la si consideri come insieme di credenze completamente prive di fondamento razionale, finirebbe per essere «assurda e ridicola», mentre, ove si pretenda di ridurla a princípi esclusivamente razionali, finirebbe per perdere quella dimensione di mistero e di soprannaturalità che ne costituisce la più specifica connotazione8. Il che significa che ragione e fede, pur non essendo separabili, sono momenti diversi, distinti, anche nel caso in cui il momento della fede venga a ricevere un supporto critico-razionale particolarmente prezioso. D’altra parte, anche la scienza (la fisica, la matematica) non è espressione di assoluta razionalità. La scienza non è sapienza e la sua attività conoscitiva, per quanto dotata di relativa capacità dimostrativa e di attendibili metodi di accertamento, può garantire un grado abbastanza limitato di conoscenza, a causa dei suoi stessi limiti strutturali, costituiti dal fatto che essa è prodotto di quella creatura limitata che è l’uomo. Infatti, la scienza è fondata su princìpi primi, su assiomi, indimostrabili, che tuttavia sono assunti come premesse o presupposti indispensabili di ragionamenti dimostrativi. Afferma con molta chiarezza Pascal:
«Noi conosciamo la verità, non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. È in questo modo che noi conosciamo i princìpi primi, ed è invano che il ragionamento, che non ha vi ha parte, cerchi di combatterli … Infatti la conoscenza dei princìpi primi, come il fatto che c’è spazio, tempo, movimento, numero, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle che ci danno i nostri ragionamenti. Ed è su queste conoscenze del cuore e dell’istinto che bisogna che si appoggi la ragione, e che essa vi fondi tutto il suo discorso»9.
E’ dunque una conoscenza intuitiva, quella del cuore, che pone le basi per il lavoro dimostrativo della ragione in rapporto a tutto ciò che non può essere più colto in modo diretto e deve essere invece accuratamente argomentato e provato. Per “cuore”, è utile ribadire, Pascal intende biblicamente il centro vitale sia della vita intellettiva che di quella volitiva e spirituale, la sede tanto delle conoscenze immediate, intuitive, apodittiche, quanto delle conoscenze più discorsive, più strettamente teoretiche, e delle stesse conoscenze morali e religiose, anche se occorre precisare che, rispetto alle conoscenze discorsive ed etico-religiose, quelle intuitive assolvono una necessaria funzione preparatoria o “preliminare”10. Nell’accezione biblica, è stato opportunamente precisato, «il cuore non è una parte dell’essere umano distinto, e tendenzialmente opposto, alla ragione: è piuttosto il tutto dell’essenza umana di cui la ragione è una parte, un’articolazione, una manifestazione. Il cuore non è un ramo che si divarica, come altri rami quale la ragione, dal tronco: è piuttosto questo tronco stesso considerato come principio vitale di ogni possibile ramificazione»11.
Pertanto, per Pascal, nella conoscenza non agisce solo la ragione ma anche il cuore, che risultano entrambi “complementari” e necessari, pur operando con funzioni diverse e in modi gnoseologici diversi ma ugualmente corretti: i tempi della ragione logico-discorsiva sono più lenti, mentre quelli della percezione intuitiva sono immediati, quasi fulminei12. I punti di partenza di qualsiasi ragionamento sono sempre intuiti, sentiti, logicamente infondati ma fondativi di qualunque costrutto logico13. In tal senso, se la ragione è «facoltà puramente formale … il cuore è la facoltà dell’infinito», e poiché Dio è l’infinito per eccellenza, il cuore e non la ragione «sente Dio», anche se il cuore è pur sempre sostrato di una ragione che ne recepisce e ne elabora gli impulsi14.
Inoltre, la scienza può gettare luce, può acquisire conoscenza e verità in relazione a quelle che, già Galilei, chiamava le “qualità oggettive dei corpi” (forma, posizione, movimento), ovvero gli elementi quantificabili, determinabili, misurabili, non anche in relazione alle loro “qualità soggettive” (sapore, odore, colore, qualsiasi genere di percezione soggettiva). Infine, su un cospicuo numero di questioni umane, esistenziali, anch’esse parti integranti del mondo di esperienza, tanto la scienza matematica quanto la scienza fisica e sperimentale non hanno alcuna possibilità di assolvere una pur minima funzione conoscitiva. Pascal aggiunge che la conoscenza scientifica non è così pura come si pensa, così incontaminata da esperienze ingannevoli e da falsi o illusori ragionamenti, perché in realtà «l’uomo non è che un soggetto pieno d’errore, naturale e incancellabile senza la grazia. Nulla gli mostra la verità. Tutto lo inganna (tout l’abuse). Questi due princìpi di verità, la ragione e i sensi, oltre che mancare ciascuno di sincerità, s’ingannano reciprocamente. I sensi ingannano la ragione con delle false apparenze»; ma anche le alterazioni emotive connaturate alla ragione, «le passioni dell’anima turbano i sensi, e forniscono ad essi delle false impressioni»15. D’altra parte, la facoltà razionale dell’uomo non solo possiede una natura complessa ma anche una natura non completamente omogenea, perché è vero, ad esempio, che l’immaginazione ne sia parte costitutiva, ma è altrettanto vero che essa possa non essere utilizzata correttamente e anche in sede scientifica capita non di rado che se ne faccia un uso erroneo o improprio. Pascal appare implicitamente consapevole del fatto che la ragione, la stessa scienza, non dispongono solo di un’immaginazione creativa nell’ordine del reale e del vero, ma sono costantemente minacciate da forme gemellari deteriori di immaginazione che danno luogo a rappresentazioni arbitrarie, imprecise o grossolane della realtà, e producono conoscenze fantasiose o ingannevoli.
In tal senso, l’immaginazione è una temibile nemica della ragione: «Questa superba potenza, nemica della ragione, che si compiace di controllarla e di dominarla, per mostrare quanto essa può in tutte le cose, ha stabilito nell’uomo una seconda natura. Essa ha i suoi fortunati e i suoi sfortunati, i suoi sani, i suoi malati, i suoi ricchi, i suoi poveri; essa fa credere, dubitare, negare la ragione; essa sorprende i sensi, essa li fa sentire; essa ha i suoi pazzi e i suoi saggi: e nulla ci fa più dispetto quanto vedere che essa riempie i suoi ospiti di una soddisfazione ben altrimenti piena ed intera che non la ragione. Coloro che si credono validi (habiles) per effetto dell’immaginazione, si compiacciono di se stessi in ben altro modo di quanto si possano ragionevolmente compiacere le persone assennate (les prudents). Essi guardano gli altri con autorità, con timore e sfiducia; essi disputano con ardimento e fiducia; e questa gaiezza di viso fornisce loro un vantaggio nell’opinione degli ascoltatori, tanto i saggi immaginari riscuotono favore presso i giudici della stessa natura. Essa non può rendere saggi i folli; ma essa li rende felici, ad invidia della ragione, che non può rendere i suoi amici che miserabili, l’una coprendoli di gloria, l’altra di vergogna»16.
Di fatto, «la ragione non domina mai completamente l’immaginazione, mentre l’immaginazione disarciona (démonte) spesso del tutto la ragione dalla sua sede»17. Quando Pascal dice che «noi desideriamo la verità, e non troviamo in noi che incertezze»18, egli intende dire anche che non si dà conoscenza, dalla più generica alla più rigorosa, che possa mettere l’uomo al riparo dall’errore, dal dubbio, da una possibile smentita o confutazione, e quindi che la vera bussola dell’esistenza umana non può rinvenirsi in una conoscenza razionale che non sia accompagnata da una saggezza spirituale che, facendosi carico di tutti i fattori irrazionali o extrarazionali (tra cui la idee religiose, la tradizione, determinate credenze popolari, pregiudizi sociali e culturali, in quanto è lo stesso osservatore o scienziato che li porta o li travasa in qualche modo nelle teorie che elabora o costruisce) che concorrono al costituirsi legittimo o erroneo delle teorie scientifiche, si assuma il compito di non gettare discredito sulla funzione civile della ricerca e del progresso scientifici pur badando a moderare i toni trionfalistici e fideistici che non di rado ne accompagnano le imprese, anche perché con le ragioni della ragione interagiscono continuamente, e talvolta interferiscono proficuamente, le ragioni del cuore, che pur seguendo propri specifici percorsi, non sono meno pregnanti e significative delle prime.
Il cuore ha le sue ragioni, dice Pascal, i suoi impulsi vitali, le sue pulsioni istintive, i suoi slanci o lampi intuitivi non governati da alcun criterio stabilmente acquisito di razionalità ma sempre spontanei e inediti e, in questo senso, sfuggenti a qualsiasi possibilità di controllo preventivo della ragione logica e discorsiva. Sono ragioni che la ragione non conosce, non contempla, non prevede, e sono generalmente considerate come fattori irrazionali o extrarazionali della mente. Più spesso si tratta di ragioni più semplicemente arazionali, in quanto non urtano necessariamente contro princìpi riconosciuti di razionalità, né li eludono, ma si pongono in rapporto ad essi come ipotesi integrative di lavoro accompagnate tuttavia da un atto di fede, che è indispensabile tutte le volte che ci si trovi alle prese con possibili svolte innovative di natura scientifica. Si danno, in altri termini, posizioni, punti di vista, ipotesi, che, in quanto tali e a prescindere dalle loro concrete implicazioni, sembrerebbero non ricadere né nel campo della razionalità, né in quello dell’irrazionalità. E viene così delineandosi un’idea complessa, non riduttiva, possibilista, larga e integrata di razionalità, in cui confluiscono e giocano un ruolo diversificato e non aprioristicamente prevedibile molteplici fattori, di natura biologica e culturale, di natura razionale ed emozionale, di natura cognitiva e strumentale, di natura normativa e trasgressiva, dove in sostanza conoscenza, etica, fede vengono facendosi faticosamente strada attraverso un turbinìo di elementi razionali e irrazionali.
In ogni caso, per quanto la posizione pascaliana sia sembrata, per lunghissimo tempo, a causa del contesto religioso intimistico in cui viene espressa, arretrata, primitivistica, oscurantista, oggi essa sembra riacquistare legittimità in sede epistemologica e scientifica. Si pensi alle celebri dispute tra Popper e Kuhn o tra Kuhn e Lakatos, oppure al tentativo ancora più provocatorio di Paul Feyerabend di proporre una radicale relativizzazione del concetto stesso di razionalità19. Dal dibattito contemporaneo, è emerso in modo sempre più chiaro che la scienza non occupa per intero il territorio della razionalità, ma ne esprime solo una parte, perché la razionalità è, in effetti, molto più estesa della razionalità scientifica, e tutto quello che non può essere acquisito come oggetto di conoscenza scientifica dimostrata o dimostrabile, non per questo può essere ragionevolmente catalogato come non scientifico. Per esempio, non ogni genere di credenza spirituale può essere considerata irrazionale in modo legittimo: non è irrazionale una credenza spirituale se accade che i dati scientifici disponibili non riescano a dar conto delle realtà di cui essa tratta e che richiedono, pertanto, un indefinito supplemento di indagine prima di poter pervenire a conclusioni attendibili.
Anche la scienza, al pari di tutte le altre istituzioni e forme culturali esistenti, è solo una narrazione, un’opinione, una forma di immaginazione, e credere alla sua superiorità rispetto ad altre forme di pensiero, ivi compresa quella religiosa, è solo una posizione ideologica, un atto di fede, un dogma ancor più aggressivo di quello religioso. Anzi, osserva acutamente Feyerabend, è curioso che in occidente sia stata istituzionalizzata la separazione tra stato e chiesa ma non si sia mai minimamente pensato a separare istituzionalmente lo Stato dalla scienza: «Eppure la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. Ad ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili. La separazione fra stato e chiesa dovrebbe essere perciò integrata dalla separazione fra stato e scienza»20.
Non si intende certo dire che, sia pure embrionalmente, lo scienziato e il filosofo Pascal sia venuto prefigurando una dialettica così movimentata e complessa tra razionalità logica e razionalità intuitiva, tra razionalità scientifica e razionalità tout court, tra razionalità e irrazionalità, ma certo, anche in virtù della sua fede religiosa e cristiana, egli è venuto introducendo nella storia del pensiero filosofico, in antitesi al concetto monolitico, omogeneo, blindato di metodo scientifico, sulla falsariga delle “idee chiare e distinte” di Cartesio, un concetto innovativo perché più aperto, flessibile, plurale, di metodologia scientifica. A questa novità teorica egli ha dato virtualmente luogo nel momento stesso in cui ha affermato che «noi conosciamo la verità, non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore», ovvero con l’intuito, con l’immaginazione noetica, con una sorta di precomprensione ermeneutica, con atti particolarmente ispirati della mente, abbattendo certe tradizionali e pregiudiziali barriere qualitative tra veridicità scientifica e sperimentale e veridicità intuitiva e astratta e segnalando implicitamente che quello della razionalità non è mai un terreno fermo, immobile, statico, ma sempre in movimento, soggetto a sempre diverse e imprevedibili rimodulazioni, sì che risulti molto difficile poter stabilire un confine netto e stabile, se non addirittura definitivo, tra il razionale e l’irrazionale. Pascal vedeva nel “cuore” un principio vitale di organizzazione della vita intellettuale, morale e religiosa, e che ognuno di noi sia dotato di “meccanismi vitali”, di sentimenti e istinti primari, definiti come irrazionali, anche se più specifici e circoscritti di quelli pascaliani, e che, spesso trovando il loro acme nello spirito religioso, comunque giocano un ruolo di primo piano nella nostra vita: e ciò oggi sempre più frequentemente viene confermato da precise indagini scientifiche. Non c’è persona razionale al mondo che non abbia un suo corredo, piccolo o grande, di irrazionalità, e lo stesso uomo di scienza non ne è affatto privo21.
D’altra parte, il sentimento religioso, ovvero quel “conoscere con il cuore”, che troppo spesso viene impropriamente relegato in quanto tale tra le manifestazioni irrazionali più tipiche dello spirito umano, in realtà ha una natura razionale o irrazionale a seconda della forma che viene assumendo nella mente e nel comportamento dei singoli individui, anche se evidentemente non può nutrirsi solo di argomenti razionali ma deve affidarsi soprattutto alla fede che, pur sorretta da un valido supporto logico-razionale, di quel sentire costituisce la maggiore peculiarità. Oggi c’è chi, come il fisico e teologo britannico John Polkinghorne, tenta di smontare, non senza efficacia, alcuni luoghi comuni: che la scienza, per esempio, si occupa dei fatti, mentre la religione riguarda solo le opinioni. Intanto, perché non si danno fatti scientifici rilevanti che non siano già passati attraverso il filtro dell’interpretazione, mentre la religione che si interroga sulla stessa realtà su cui si interroga la scienza in modi e con mezzi diversi non necessariamente deve sottoporre in modo acritico le proprie argomentazioni «alle asserzioni irrazionali stabilite da un’autorità indiscutibile», potendo invece disporre di argomentazioni autonome di natura perfettamente razionale senza per contro proporre un’indagine che tenda ad eludere fatti oggettivi di riferimento. Ma poi anche perché la religione, o meglio la teologia, si occupa di problemi rilevantissimi nel quadro della vita personale e della storia della civiltà umana, come quello del valore e del significato, che la scienza si limita ad accantonare per mancanza di mezzi idonei a trattarli razionalmente, sebbene molti scienziati temano che l’approccio teologico a tali problemi possa essere scorretto.
Peraltro, la verità assoluta che semplicemente si postula in sede teologica sulla base di motivazioni più plausibili o meno plausibili ma non «di orizzonti certi» in senso conoscitivo, anche la scienza non può e non intende reclamarla essendo il suo cammino, la sua storia, costellati da frequenti mutamenti paradigmatici che pongono continuamente in discussione l’univoco significato epistemico delle sue teorie, e anche per questo appare razionalmente necessario che la scienza mostri una certa duttilità non solo verso le sue interne acquisizioni conoscitive ma anche verso le soluzioni congetturali di natura intuitiva, proposte dal sapere teologico, che fungono da princìpi esplicativi del reale, allo stesso modo di come certe originarie verità assiomatiche della scienza, anch’esse di natura intuitiva e non dimostrativa, fungono da princìpi esplicativi dei fenomeni fisico-naturali. Ciò detto, resta da cogliere ancora un’analogia: la scienza ha fede nella struttura razionale del reale, la fede e la teologia hanno fede nella struttura trascendente e sovrannaturale della struttura razionale del reale. Entrambe le prospettive ricerche appaiono razionalmente legittime. Se la ricerca teologica ha in Dio il suo presupposto originario e vitale, la scienza ha nei suoi princìpi primi, assiomatici, il fondamento stesso di ogni sua possibile ricerca logica, fattuale e sperimentale. Pertanto, appare del tutto ragionevole l’affermazione di Polkinghorne: «La trasparenza razionale e la bellezza razionale dell’universo fisico sono tali da indurre molti di noi a percepire che queste proprietà possono essere meglio comprese se considerate come segni della mente del Creatore del mondo, fonte di questo ordine meraviglioso … Se la scienza ci insegna qualcosa, è che la realtà è spesso sorprendente, manifesta proprietà la cui previsione va al di là delle nostre umane capacità», donde «la scienza ha reso» altresì «evidente che qui non c’è alcuna razionalità universale, applicabile in maniera problematica a tutte le entità», e che «similmente non esiste un’epistemologia universale»22.
Non un modello di razionalità ristretta ma un modello di razionalità aperta, sempre pronto ad accogliere e ad elaborare criticamente casi di imprevedibilità, difformità o abnormità rispetto a leggi e regole codificate, è quello cui dovrebbero ispirarsi sia la ricerca scientifica che la ricerca teologica, sia la scienza che la fede. L’intuizione immediata di Dio come principio di ricerca del senso della vita, l’intuizione libera o sganciata da “idee chiare e distinte” aprioristicamente determinate come fonte di verità evidenti, apodittiche, che fungano a loro volta da princìpi di catene dimostrative mai esaustive di conoscenza. La scienza non è il regno della razionalità, perché tanta irrazionalità agisce, talvolta casualmente a favore, talvolta a detrimento della verità, nei processi scientifici; la fede non è il regno dell’irrazionalità, nei limiti in cui nulla di quel che essa correttamente esprime possa essere oggettivamente invalidato in sede logica e sperimentale e nei limiti in cui si consideri che anche la scienza muove ed è costantemente sorretta da un atto extrarazionale di fede. Razionalità e irrazionalità sono molto più mescolate, confuse e interscambiabili, di quanto si pensi, nell’attività conoscitiva, morale e spirituale degli uomini. Va anche notato che, per quanto mistico sia l’approccio pascaliano al problema di Dio, tale approccio in sede teoretica viene proposto in modo abbastanza equilibrato: «Esaminiamo dunque questo punto, e diciamo: “Dio è, o non è”. Ma da quale lato penderemo noi? La ragione non vi può determinare nulla: c’è un caos infinito che ci separa»23.
Ma, se la ragione, già ben conscia di non poter conoscere tutte le cose della natura, a maggior ragione non può esprimersi al riguardo, ovvero sulla realtà trascendente e sovrannaturale delle cose e degli esseri esistenti, vuol dire che non è verosimilmente irragionevole riporre la propria fede di creature in un Dio ancora possibile e, segnatamente, nel Dio onnipotente ed eterno, giusto e misericordioso rivelato da Gesù Cristo. A questi risultati filosofici e teologici, comunque li si voglia valutare ma che a me sembrano notevoli, era pervenuto nel ‘600 Blaise Pascal. Ha scritto Edgar Morin: «La razionalità di Pascal non è chiusa in se stessa. Essa lo spinse a prendere vivamente coscienza dei limiti della stessa ragione, a concepire la conoscenza come inseparabile dall’inconoscibile e dal mistero. … Ha compreso che una scienza che crede di spiegare tutto non può che accecare, che la vera scienza è quella che giunge alla conoscenza dell’ignoranza … La razionalità di Pascal è inseparabile dalla coscienza che la fede non può fondarsi nella ragione … Pascal si serve della ragione per mostrare i limiti della ragione e per nutrire il suo dubbio, si serve del dubbio e della ragione per svelare un ordine di realtà superiore e inaccessibile alla ragione, alimenta così la sua fede e la sua religione con il dubbio e la ragione. Tutto ciò gli permette di enunciare molto razionalmente la sua fede assurda: credo quia absurdum. … Pensatore della complessità dell’essere umano nel mondo, Pascal è di un’attualità inaudita. Lo sprofondare del determinismo assoluto nella scienza, il crollo di una concezione teleguidata della storia in ascesa verso il progresso, tutto questo costituisce un profondo ritorno dell’incertezza nella conoscenza. La coscienza razionale accresciuta dai limiti della ragione, compresi quelli scientifici (Popper, Gödel e altri) lo conferma. Il sorgere delle aporie in tutti gli avanzamenti del pensiero scientifico ci fanno ritrovare spontaneamente l’idea di Pascal (e di Niels Bohr) secondo cui il contrario di una verità profonda non è un errore bensì un’altra verità profonda»24.
Solo qualche rapida obiezione: è vero che per Pascal la fede non possa fondarsi sulla ragione solo se la ragione è quella logico-discorsiva, è quella già formalizzata, ma, come si è visto, il cuore, il sentire del cuore, il percepire intuitivo del cuore, attraverso cui Dio viene colto dalla mente e dalla coscienza, sono origine e parte costitutiva imprescindibile del formarsi della stessa conoscenza razionale, della stessa conoscenza astratta di cui consta il sapere logico e scientifico. Quindi, il “cuore”, che Pascal distingue ma non separa dalla ragione e che resta pur sempre il cuore della ragione, trova il suo complemento necessario nella ragione, tanto da potersi reciprocamente parlare di una ragione del cuore, cioè di una ragione intuitiva che funge da fondamento della fede. In caso contrario, ci si ritroverebbe a dover ripetere che la fede è irrazionale e questo concetto non esprimerebbe fedelmente il pensiero di Pascal. Infine, non si può definire “assurda” la fede pascaliana, per il semplice fatto che credo quia absurdum non sembra si addica alla sensibilità religiosa di Pascal, per il quale il concetto di Dio non è affatto assurdo ovvero contrario alla logica e alla ragione, dal momento che egli era ben consapevole di come quest’ultime fossero semplici estrinsecazioni creaturali dell’infinita sapienza divina.
Francesco di Maria
NOTE
1 Cito da B. Pascal, Pensieri, B. Pascal, Pensieri, trad. di M. Magni dall’edizione dei Pensées a cura di J.-J. Chevalier, in B. Pascal, Œuvres complètes, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 1954, Istituto Italiano Edizioni Atlas, Bergamo, s.a., p. 41. Cito le pagine ma non il numero dei “pensieri” o frammenti.
2 Ivi, pp. 9-10.
3 Tra i contributi critici più importanti alla conoscenza del pensiero pascaliano vanno segnalati, sebbene tacciati di contenere delle forzature interpretative, quelli di J. Chevalier, Pascal, Paris, Librairie Plon, 1922; La méthode de connaître d’après Pascal, in «Revue de Metaphysique et de Morale» XXX, 2 (Avril-Juin 1923), pp. 181-215; Les rapports de la vie et de la pensée chez Pascal, in «Revue hebdomadaire» XXXII, 28 (1923), pp. 205-218, e Les origines scientifiques de la pensée de Pascal, Clermont, Imprimerie moderne, 1923; ma anche quelli di J. Russier, La foi selon Pascal. Dieu sensible au cœur, Paris, PUF, 1949, e di J. Laporte, Il cuore e la ragione secondo Pascal (1923), Brescia, Morcelliana, 2018, pp. 9-10.
4 A. Di Giovanni, Ragioni del cuore o cuore della ragione? Il «cuore» come parola-fondamentale in Pascal, in “Rivista di Filosofia Neo-scolastica”, 1978, n. 3, pp. 382-393.
5 C. Romano, Al cuore della ragione, la fenomenologia, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2020.
6 Pascal, Pensieri, cit., p. 61.
7 Ivi, p. 2.
8 Ivi.
9 Ivi, p. 61.
10 J. Mesnard, Sui “Pensieri” di Pascal, Brescia, Morcelliana, 2011, p.108 (ed. orig. Les “Pensées” de Pascal, Paris, Sedes, 1976).
11 A. Cavadi, Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce?, in “Dialoghi Mediterranei”, Mazara del Vallo, 1 settembre 2018, n. 33.
12 A. Peratoner, Blaise Pascal. Ragione, rivelazione e fondazione dell’Etica. Il percorso dell’Apologie, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2002, p. 424.
13 A. di Giovanni, Ragioni del cuore o cuore della ragione? Il «cuore» come parola fondamentale in Pascal, in “Rivista di filosofia Neo-Scolastica”, 70, 1978, n. 3, p. 389.
14 J. Laporte, Il cuore e la ragione secondo Pascal, cit., 2018, p. 64 e p. 106 (ed. orig. Le coeur et la raison selon Pascal, Elzévir, Paris 1950 e Pensieri, cit., p. 62). Ma il merito della ricostruzione critica del nesso tra ragione e cuore, di cui nel testo, è di una giovane laureata: Beatrice Bozzetto, Al cuore della conoscenza, i cardini del sapere. Pascal e Wittgenstein: alcune affinità tra i Pensieri e Della Certezza, Tesi di laurea, Anno accademico 2021-2022, Università Cà Foscari di Venezia, pp. 6-9.
15 Pascal, Pensieri, cit., pp. 13-14.
16 Ivi.
17 Ivi, p. 15.
18 Ivi, p. 33.
19 P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1979.
20 Ivi, pp. 245-246.
21Cfr. M. Strevens, La macchina della conoscenza. Come l’irrazionalità ha creato la scienza moderna, Torino, Einaudi, 2021; Justin E. H. Smith, Irrazionalità. Storia del lato oscuro della ragione, Milano, Ponte alle Grazie, 2020; M. Gleiser, Il neo del creatore. L’irrazionalità nascosta nel miracolo della vita, Milano, Rizzoli, 2011.
22 J. Polkinghorne, Amici scienziati, la religione non è irrazionale, in “Vita e Pensiero”, 2012, n. 2, pp. 82-90.
23 Ivi, p. 57.
24 E. Morin, I miei filosofi, Torino, Il Margine, 2021, paragr. 6, pp. 70-77.