Wittgenstein, la pluralità dei linguaggi e il problema del senso

Ludwig Wittgenstein scrive nel Tractatus che avrebbe potuto comprendere le sue riflessioni solo chi avesse già avuto «pensieri simili», ammettendo così implicitamente che la sua comunicazione filosofica potesse rischiare di apparire o risultare incomunicabile. Non era propriamente un modo di proporsi quale ortodosso interprete dello spirito scientifico moderno, che ha il suo fulcro, com’è ben noto, nel principio per cui le osservazioni, le interpretazioni, le scoperte della scienza, devono poter risultare tanto accertabili e riproducibili quanto comunicabili e condivisibili con tutti i membri della comunità scientifica internazionale, indipendentemente dalle convinzioni già acquisite da ognuno di essi. La conoscenza diventa scientificamente universale allorchè essa, pur nel quadro di posizioni ancora o provvisoriamente diverse e contrastanti, finisce per essere condivisa e acquisita come ipoteticamente plausibile da tutti gli scienziati, sia pure non senza che essi possano esprimere precisazioni e riserve di carattere logico-metodologico o procedurale. Solo in tal modo, ovvero attraverso la comunicabilità del sapere scientifico e una scienza estensibile a chiunque, una scienza pubblica condivisa, può evitarsi il rischio di una “scienza privata”, meramente individuale, non confrontabile, non riscontrabile, non integrabile, da cui non potrebbe derivare alcuna forma oggettiva di conoscenza.

Quindi, al contrario di quel che asserisce Wittgenstein, è proprio chi la pensa diversamente da me che, persuadendosi della veridicità delle mie ricerche, può comprovarne la correttezza e la legittimità scientifiche, sebbene il filosofo viennese non esclude affatto che momenti di incomunicabilità, ove vi sia la buona fede dei soggetti che dibattono e si confrontano, possano persino favorire o facilitare il raggiungimento dell’accordo e della verità scientifica. Ma egli sottolinea il rischio di incomunicabilità perché sa bene che lo strumento principale di ogni discussione, confronto, contrapposizione, risoluzione teorico-scientifica, ma anche filosofica ed etica, è costituito dal linguaggio, nel quale si annidano innumerevoli ambiguità, imprecisioni, limiti di vario genere, tanto da indurlo a definire «i limiti del mio linguaggio» come «i limiti del mio mondo» (T. 5.6), nel senso che ogni io viene rappresentandosi il mondo nei limiti del linguaggio in cui lo esprime, quale che sia o possa essere tale linguaggio, per cui ogni io si viene formando una determinata prospettiva del mondo.

Perché sia possibile un progresso, una convergenza, un arricchimento e una condivisione sempre più significativa di conoscenze, è necessario intervenire sul linguaggio, sottoporlo ad un’opera sistematica di chiarificazione, per renderlo quanto più possibile funzionale ad una comune acquisizione di idee, convincimenti o credenze. Il problema, quindi, per Wittgenstein, non è semplicemente fare sempre nuove esperienze, conoscere fatti sempre diversi, per ampliare e consolidare il proprio sapere, dal momento che, fin quando non si venga operando correttivamente sul linguaggio, sino a che non si venga bonificando il linguaggio in cui quelle esperienze e quei fatti ogni volta devono essere rappresentati, la conoscenza tenderà certo ad espandersi quantitativamente, ma pur sempre in forme erronee, improprie o abnormi, finendo per generare contraddizioni, antinomie o aporie difficilmente superabili o componibili, e per accrescere nuovamente il grado interlinguistico di incomunicabilità, di confusione e di non-senso logico.

Egli, dunque, non intende teorizzare una sorta di solipsismo. Come dire: ognuno ha un suo linguaggio, più o meno preciso, più o meno depurato da usi espressivi impropri o ambigui, e ognuno si rappresenta il mondo nei limiti più o meno angusti del suo linguaggio. Non è così, perché Wittgenstein vuole dire che, pur esistendo un mondo reale, oggettivo e indipendente da ognuno di noi, esso poi viene percepito e rappresentato in modi diversi e più o meno adeguati a seconda che i nostri strumenti logico-linguistici siano rozzi piuttosto che affinati, primitivi piuttosto che elaborati, poveri o ricchi di senso. Ciò significa anche che ognuno avrà il suo mondo ma che non ogni mondo avrà lo stesso significato, lo stesso valore teorico-pratico, la stessa pregnanza logica, filosofica o scientifica. Né basterà un approccio intersoggettivo a superare tale difficoltà, tale incomunicabilità, tale divaricazione linguistico-relazionale, se la stessa base intersoggettiva di riferimento non venga opportunamente sottoposta a severi processi di educazione logico-linguistica.

Il linguaggio non è uno solo, non solo, per esempio, quello proposizionale o simbolico, in quanto si danno diversi linguaggi: musicale, plastico-raffigurativo, psichiatrico, e via dicendo. E «ogni linguaggio è significante: ogni forma d’espressione presuppone un pensiero, ovvero intende rappresentare un aspetto della realtà. I linguaggi sono sistemi di segni significanti che raffigurano la realtà. Il gesto, l’espressione di un volto, il passo di danza, una melodia: sono tutti validi veicoli di pensiero. Una frase musicale può riuscirci triste come un addio, come una lacrima» (A. Giorgi, Silenzio. L’incomunicabilità in Wittgenstein, 2014, p. 6). Ma è a questo livello che diventa necessaria l’attività purificatrice, rischiaratrice, terapeutica della filosofia. E’ qui che l’analisi filosofica deve liberare il linguaggio dai suoi usi impropri e dalle sue forme abitudinarie e non di rado soggette, tanto a livello di linguaggio comune quanto a livello di linguaggio colto, a tutta una serie di ambiguità o equivoci espressivi e definitori che finiscono per non corrispondere più, sul piano logico-concettuale, se non in modo molto generico e approssimativo, agli oggetti reali che dovrebbero essere rappresentati. La filosofia deve, in altri termini, restituire al linguaggio il suo vero ruolo chiarificatore, la sua primaria funzione esplicativa.

Ci si rende facilmente conto di come possa essere attuale questa riflessione nell’epoca attuale di generale depauperamento del linguaggio e di crescente e inarrestabile emarginazione della funzione educativa e formativa della scuola, che avrebbe il compito primario di allargare quanto più e meglio possibile i limiti del linguaggio che denotano, come dice Wittgenstein, i limiti stessi del nostro mondo. Tutto questo vale in rapporto al problema di descrivere e spiegare il mondo nel suo essere, il mondo così com’è, ma non anche le cause o le ragioni del suo essere così e così, e neppure le ragioni delle sue possibilità di essere diversamente da come è. Questo vale, cioè, in rapporto al problema della conoscenza oggettiva, della conoscenza razionale e scientifica, in virtù della quale ogni cosa o fenomeno indagato riceve un senso preciso e inequivocabile. Ma la nostra quotidianità di esseri umani ha a che fare soprattutto con espressioni, asserzioni, proposizioni che presuppongono giudizi di valore, credenze, scelte, non fondati in criteri oggettivi ma solo negli ambiti soggettivi del volere e della valutazione individuali, per cui, poiché il più delle volte gli individui parlano di cose che trascendono la sfera della attualità e quindi di ciò che può essere definito, determinato, circoscritto linguisticamente con segni semantici o simboli logici precisi, inevitabilmente si tende a forzare la struttura semantica del linguaggio nel vano tentativo di conferire un senso univoco, limpido e non suscettibile di essere frainteso, a tutto ciò di cui appunto si parla. Gran parte della nostra quotidianità è caratterizzata, pertanto, da non sensi linguistici derivanti da modalità linguistiche che esprimono male, in modi generici e confusi, vaghi e involuti, i contenuti del pensiero, e che nascondono quindi anziché chiarire il senso di quel che pure vengono dicendo molto faticosamente. E’ un dire, in realtà, che di conseguenza non dice, perché ciò che non ha senso non può essere detto nel senso specificamente logico del termine, ma che può essere detto e inteso solo in forma allusiva o analogica.

Ecco perché, per Wittgenstein, tranne che quando si tratta o si discute di scienza, le nostre parole esprimono solo il mutismo del pensiero, la sua difficoltà o incapacità di comunicare, anche se tale mutismo, tale incapacità, non denotano necessariamente, non sono una prova stringente della inconsistenza o insignificanza di ciò cui esse non sono capaci di conferire senso. Tanto che lo stesso Tractatus, tutte le critiche, le obiezioni, le confutazioni che in esso vengono mosse alla tradizione filosofica e alla stessa filosofia corrente, evocano nient’altro che silenzio, nient’altro che uno strumento al servizio di poche persone vocazionalmente portate ad esercitare un rigoroso lavoro di analisi. Gran parte della nostra vita soggettiva è scandita da tutta una serie di pensieri, di convinzioni, di credenze, di valori, di aspettative e di speranze, che, per quanto dotati di grande e vitale importanza per ognuno di coloro che li avvertono o percepiscono intimamente, non possono mai essere descritti e comunicati compiutamente se non a coloro che abbiano «già avuto un’esperienza in qualche modo simile» e che, solo per questo motivo, potranno «orientarsi nell’intendere»: «non esiste sforzo comunicativo che colmi un tale scarto. Per quanti … non abbiano esperito ciò che noi sentiamo resteremo nient’altro che un mistero. L’incomprensione è statutaria e irriducibile» (Ivi, p. 8).

Anche la nostra etica e il nostro giudizio morale trascendono, in linea di principio, qualunque possibilità di essere comunicati razionalmente e intersoggettivamente, ma essi, se o quando si convertono in azione concreta, incidono sui fatti stessi del mondo contribuendo così, sia pure impercettibilmente, a cambiarlo. Pertanto, anche i contenuti dell’interiorità sono fatti, fatti tra fatti, e tuttavia, in questo caso, si tratta di fatti che, lungi dal lasciare il mondo completamente identico a se stesso, possono concorrere, per mezzo della nostra volontà, a mutare il mondo.  Ciò significa che «i fatti» tanto esaltati da positivisti e da scientisti «non sono tutto»: essi né arricchiscono, né impoveriscono gli uomini, scrive in particolare Wittgenstein nei suoi “Pensieri diversi” (Milano, Adelphi, 1980). Ma è fuor di dubbio che il pensiero, come il linguaggio che l’uomo viene costruendo ed elaborando, abbia le sue origini e il suo costante condizionamento nella prassi, che si dà come orizzonte di senso della stessa esistenza umana,  a sua volta predisposta a vivere in sintonia con la natura umana e con la stessa attività filosofica che ne è momento integrante. Si tratta di fare in modo che il linguaggio, pur diretto dal pensiero e che — è quel che il pensatore viennese comprenderà all’indomani della pubblicazione del Tractatus, a seguito del suo confronto con il matematico Frank Ramsey e l’economista Piero Sraffa — non si dà semplicemente nella sua struttura logico-rappresentativa ma in strutture molteplici e di vario genere, aderisca quanto più strettamente possibile a una determinata “forma di vita”, vale a dire all’insieme delle pratiche costitutive di un determinato contesto sociale, linguistico, culturale, di un contesto di vita quotidiana da cui viene emergendo quel linguaggio comune nella infinita varietà delle sue espressioni, dei suoi usi, dei suoi “giochi” come li chiama Wittgenstein, i quali corrispondono non unicamente a leggi o regole sintattiche e semantiche di natura logica ma a funzioni di natura pratico-pragmatica, relative ad esigenze e bisogni di vita quotidiana.

Tra il “primo” (“Tractatus”) e il “secondo” (“Ricerche filosofiche”) Wittgenstein, la filosofia conserva la sua funzione di descrizione e chiarificazione del linguaggio nella pluralità delle sue forme: quello che cambia è, per l’appunto, solo il fatto che suo oggetto di studio e di esame non è più solo il linguaggio scientifico, il linguaggio in particolare delle scienze fisico-naturali, ma qualunque altro tipo di linguaggio usato ed esercitato nella propria comunità linguistico-culturale di appartenenza. Il che significava non istituire un rapporto gerarchico ma paritario tra linguaggi diversi, tra linguaggio scientifico e linguaggi non scientifici, tra linguaggio di senso scientifico e linguaggi di non senso scientifico e tuttavia dotati di senso, di un senso non esprimibile logicamente e, in tal senso, percepito nel silenzio attivo e dinamico del pensiero, in un silenzio che non dice secondo codici logici istituzionalizzati, ma che mostra, che intuisce, che allude a qualcosa che potrebbe essere, anche se mancano i mezzi per dirlo, spiegarlo, dimostrarlo, che allude a qualcosa di diverso da quel che può essere accertato, acquisito conoscitivamente per mezzo del linguaggio scientifico, e a qualcosa che, pertanto, potrebbe risultare anche molto più importante delle verità scientifiche note o ancora conseguibili.

Il “Tractatus” viene pubblicato nel 1921. A partire dai primi anni ’30, per Wittgenstein la filosofia non deve occuparsi tanto del senso logico-scientifico del linguaggio e delle verità che esso comunica, quanto del non-senso di un arcipelago di linguaggi non formalizzati e non formalizzabili, ovvero del possibile senso non scientifico, e tuttavia pregno di significato e valore, di tutte quelle forme linguistiche radicate in determinate “forme di vita” e in “forme di vita” non disciplinate da princìpi e criteri di ordine logico o scientifico ma fondate su norme e regole liberamente concordate dai loro membri. Il problema, in una certa misura, cessa di essere quello del senso logico del sapere, per trasformarsi nel problema del senso tout court della vita, o meglio nel problema di stabilire, caso per caso, individuo per individuo, parlante per parlante, se dietro i tanti non sensi espressi dagli uomini al di là di ogni cautela logica e linguistica, o proprio all’interno di essi, possano racchiudersi sensi possibili, sensi impliciti e suscettibili di introdurre in un vertiginoso ed esaltante universo di realtà e verità indispensabili per una permanente felicità umana.

Ogni persona ha il dovere-diritto di elaborare un proprio modo di vedere le cose, una propria concezione del mondo e della vita, che tendono ad attualizzarsi tutte le volte che essa compie una scelta o emette un giudizio, e i filosofi di professione non dovranno proporre come norme di vita ad altri i prodotti delle proprie ricerche, proprio perché ognuno deve essere responsabilmente libero di dare risposte o cercare soluzioni al problema dell’esistenza. Il filosofo deve solo fornire una lente per guardare dentro se stessi e decidere il da farsi, sapendo tuttavia che sarà molto impegnativo il compito di tradurre poi in termini linguistici adeguate i propri giudizi e le proprie scelte.  

Francesco di Maria

Lascia un commento