Pensiero della settimana

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Quando gli apostoli chiedono a Gesù di accrescere la loro fede è come se essi cercassero di rimuovere la loro negligenza e di spiegare la loro difficoltà a comprendere certi ragionamenti e determinati atti del Cristo con i loro limiti naturali di esseri umani e con il fatto che il divino Maestro non li abbia ancora dotati di capacità superiori a quelle generalmente esercitate dagli uomini. Specialmente di fronte all’imperversare del male nel mondo e all’apparente e persistente silenzio di Dio, essi stentano a credere nelle promesse escatologiche di Cristo. Più che aprirsi alla visione di ciò che non si vede ancora ma che arriverà, essi si lasciano attanagliare dai dubbi, dalle momentanee evidenze negative di una ragione debole, statica, incapace di vedere nei fatti pure sconfortanti della vita inespresse e alternative possibilità di bene e giustizia, di una ragione in sostanza priva di fede. Per questo dicono piuttosto ipocritamente al Signore: “Accresci in noi la fede”, ma il Signore risponde con severità che, in realtà, essi non hanno ancora fede e che non si può accrescere o aumentare qualcosa che non ci sia. Infatti, sono le sue parole, «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17, 6). Ma la fede, per Gesù, non è altro dalla fede, non è un sentire che soppianti o sostituisca la ragione, bensì una dimensione possibile e necessaria della stessa ragione, un modo di essere o un’articolazione costitutiva della ragione stessa. Per il Figlio di Dio non può esistere il rischio che la fede sia nemica della ragione o che la ragione sia nemica della fede, perché entrambe sono facce di una medesima funzione spirituale, perché la ragione è un dono preziosissimo che Dio ha elargito alle sue creature per consentire loro di discernere tra vero e falso e tra bene e male, per esercitare consapevolmente e responsabilmente la loro stessa libertà personale. Continua a leggere

La politica nazionale e la guerra

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Sarò giudicato presuntuoso naturalmente, ma, come studioso cattolico, penso di aver dedicato al pensiero marxiano e a parte consistente del marxismo italiano della prima metà del ‘900, e in parte anche della seconda metà di questo secolo, grande attenzione critica e morale e una serie di studi efficacemente volti ad enucleare alcuni dei nuclei tematici fondanti della riflessione teorica ed etico-politica della sinistra italiana novecentesca. Pertanto, se oggi affermo che, almeno in questo momento storico, una sinistra minimamente degna di quella tradizione e di quella storia di fede ideale e lotta politica, non solo non esiste ma sembra sussistere nominalmente solo quale deturpazione programmatica di un intero patrimonio storico-teorico di idee e valori centrali nel quadro del processo di ricostruzione postfascista dello Stato nazionale, si può sperare che tale posizione non solo sia ritenuta legittima ma anche e soprattutto attendibile. Una sinistra che ha finito per affidarsi a certa Elly Schlein, cui fa difetto persino un linguaggio appropriato e sufficientemente comunicativo, e che si è ridotta a fare la ruota di scorta di formazioni politiche parassitarie e prive di reale e stabile rappresentanza popolare sul piano etico-politico, non può che costituire un intralcio e un danno molto seri allo svolgimento della vita democratica del nostro paese. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Gesù chiama “figli di questo mondo” le persone interessate esclusivamente ai beni e ai vantaggi materiali e temporali del mondo. Pur di perseguire il loro utile, di accrescere il loro profitto, di perseguire le proprie sicurezza e prosperità personali, sono pronti a fare qualunque cosa, a ricorrere a qualsiasi trucco o raggiro, pur di ottenere quel di cui necessitano e di poter disporre di mezzi economici e di buone relazioni interpersonali sufficienti a garantire loro una condizione di vita comoda e tranquilla anche nei momenti di grave difficoltà o di improvvisa sventura. Queste persone non si scoraggiano mai, non cedono alla tentazione di mollare tutto quando, per errori o torti da esse commessi, rischiano realmente di essere travolti. Sono persone reattive, che continuano a lottare, con tenacia, con furbizia, magari anche con mezzi illeciti, pur di perseguire i loro obiettivi e di non rinunciare ai loro interessi. Possono anche cadere in disgrazia, ma non subiscono passivamente la sconfitta, la punizione, il disonore: si danno da fare per riemergere, per riabilitarsi o, almeno, per riguadagnare la propria dignità. Anche se si danno da fare solo per il loro tornaconto e non certo per ragioni morali, per nobiltà d’animo, per volontà di riscatto morale, in un certo senso sono degni di ammirazione, per il semplice fatto che non si danno per vinti neppure nelle più sofferte o cocenti esperienze di vita. E, inoltre, pur se in funzione di fini personali, possono anche rendersi utili agli altri, procurarsi delle amicizie, e persino legami affettivi e di stima molto solidi. Sebbene in modo disonesto, in sostanza, possono essere capaci di fare del bene. Restano, tuttavia, “figli di questo mondo”, incapaci di lottare ed essere resilienti in una prospettiva diversa da quella puramente terrena di una vita senza valori, senza scopi etici e spirituali, senza senso perché completamente immanente e priva di qualsiasi orizzonte di trascendenza e di qualsiasi speranza di vita ultramondana. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Dio dette a Mosè il potere di guarire le tribù di Israele e, in senso traslato, le nazioni, che erano state morse da serpenti velenosi per i peccati da esse commessi contro Dio, se avessero guardato in alto verso il serpente di bronzo, simbolo del loro peccato e della loro punizione e, al tempo stesso, della loro guarigione prodotta dal loro pentimento, simbolo ma non fonte o causa della loro guarigione. Allo stesso modo, chiunque avesse guardato verso l’immagine del Cristo appeso ad una croce, riconoscendo il valore salvifico del suo sacrificio, sarebbe stato salvato da morte eterna. In entrambi i casi, il potere di salvare dalla morte è quello di Dio. Solo il credere nell’amore infinito di Dio e il ravvedimento interiore per le colpe acquisite nel corso della vita terrena può procurare agli esseri umani la risurrezione da morte e la vita eterna. Pensare che Dio possa giungere ad offrire in espiazione del peccato del mondo il proprio Figlio, ovvero persino una parte così intima e costitutiva della sua stessa identita’ ontologica, pur di salvare la sua creazione e, in particolare, le sue creature, è qualcosa di sconvolgente e inaudito, se si pensa che un essere umano sarebbe capace di immolarsi al massimo per una persona o una comunità particolarmente cara o per una causa umana, sociale, politica o religiosa di elevato valore morale e civile, sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Continua a leggere

Maria, la Madre partigiana

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Quando si viene trattando di un personaggio della santa storia cristiana come Maria di Nazaret, uno dei rischi che si vengono correndo è di far prevalere lo slancio lirico sull’approccio realistico, ma, in realtà, anche il più realistico degli approcci interpretativi non può evitare di rappresentare Maria come donna grandissima non già al di là delle normali e faticose vicende della quotidianità ma proprio in mezzo ad esse e alla luce di esse. Diceva bene don Tonino Bello, nel suo libro Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993, 2001, quando descriveva Maria quale donna feriale e donna senza retorica, quale donna feriale in quanto molto più importante nella sua casa di Nazareth, tutta affaccendata in lavori domestici ripetitivi e logoranti, e capace di piangere e gioire, di rendersi utile a familiari e conoscenti e pregare, di subire i contraccolpi di situazioni dolorose senza tuttavia mai drammatizzare e mostrandosi sempre propositiva, che non come oggetto di trattazione biblico-patristica, di venerazione dogmatica e liturgica, di ammirazione artistica. Maria deve essere celebrata come una grande donna del popolo di Dio prima e oltre che come personaggio-chiave della storia eterna di Dio, come una donna che mai avrebbe amato la retorica, neppure di fronte al suo Dio. Dio le avrebbe affidato il compito enorme di dare inizio alla storia della salvezza e, per tutta la sua vita terrena, non avrebbe fatto altro che magnificarne l’onnipotenza, e quindi anche la misericordia e la giustizia infinite, senza darsi arie da prima donna ma pregando costantemente a favore dei semplici, degli umili, degli oppressi e dei perseguitati, e condividendo con persone comuni, nella gioia o nel dolore, i suoi stati d’animo e la sua umanità, per cui, se è certamente vero che grandi cose avrebbe fatto in lei l’Onnipotente, altrettanto vero è che ella, presumibilmente non solo da un punto di vista umano ma anche nell’ottica divina, ne sarebbe stata degna anche facendole valere al meglio nei suoi rapporti con gli altri. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Gesù, quando si tratta di indicare le diverse situazioni di vita che, a seconda di come vengano affrontate, possono immettere nella via della salvezza o allontanare pericolosamente da essa, è molto esigente, anzi radicale: d’altra parte, sarebbe difficile pensare che il Dio della vita, della morte e della risurrezione per una vita eterna, possa essere tollerante secondo le modalità generalmente banali in cui la tolleranza viene concepita ed esercitata dagli esseri umani. Gesù dice chiaramente o allusivamente di non poter essere amato né come fenomeno da baraccone, né come taumaturgo, né come liberatore da disgrazie e mali terreni, né come conduttore di popoli, né come Dio da potersi adorare solo con le buone intenzioni e con parole insincere o ambigue. Chi ama Cristo, lo deve mettere al primo posto, non solo con dichiarazioni di principio ma con scelte o atti impegnativi e spesso costosi, nella gerarchia degli affetti e dei beni materiali: e quindi rispetto a genitori, figli, fratelli e sorelle, persino rispetto alla propria vita, cioè alla propria libertà di condurre una vita normale, senza preoccupazioni di ordine spirituale particolarmente assillanti e senza comportamenti esposti costantemente e deontologicamente al rischio di produrre situazioni conflittuali oltre che amorevolmente esercitati per il bene e la serenità delle anime e del popolo di Dio. In questo senso, quanti ministri ordinati di rito latino avvertono ormai drammaticamente il problema di staccarsi da affetti familiari e beni finanziari per servire al meglio la Chiesa di Cristo? Non c’è dubbio che siano sempre di meno. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Generalmente, i primi posti di una festa di nozze o di un luogo in cui si celebri o si commemori una ricorrenza, un evento, un’impresa civile o culturale di particolare valore, di un teatro, di una chiesa o di uno stadio, in cui abbia luogo una data rappresentazione artistica, una cerimonia religiosa o una manifestazione sportiva, sono già prenotati per gli abbonati o per personalità e soggetti di alto o medio rilievo istituzionale. Ma può sempre capitare che alcuni, sbadatamente o facendo finta di non capire, tentino di aggirare le regole o, se si vuole, le convenzioni, e occupino, con maggiore o minore disinvoltura, il posto ad altri riservato. Questo atteggiamento corrisponde ad una ricerca di comodità, di visibilità, ad un desiderio più o meno inconscio di emergere o primeggiare, indipendentemente dal fatto che coloro per i quali i posti sono prenotati o riservati siano migliori o peggiori di chi vorrebbe occuparli. Per molti di noi, è come se stare davanti, occupare i posti migliori o più prossimi a personaggi noti, famosi o comunque socialmente e mediaticamente apprezzati, equivalesse automaticamente ad acquistare maggiore valore, ad essere più di quello che realmente si è, senza peraltro rendersi conto che in realtà, a dispetto delle apparenze, delle convenzioni sociali, della qualità professionali, dei ruoli sociali o dei titoli di merito vantati da coloro nei cui pressi si vorrebbe apparire o presenziare, quest’ultimi non siano poi dotati di qualità così eccelse da giustificare la nostra ansia di figurare in prossimità dello spazio da essi occupato. Continua a leggere

Maria tra potere divino e poteri storico-mondani

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Durante la sua vita terrena, Maria non ebbe alcun potere visibile o appariscente, alcuna capacità di incidere direttamente, in un modo o nell’altro, su circostanze, eventi, situazioni umane di ingiustizia e sopraffazione, se non quello, molto significativo, di infondere nel cuore dei primi seguaci di Gesù fiducia, speranza, amore, gioia, nonostante le dure avversità e la persecuzione che essi dovettero subire e affrontare specialmente dopo la morte del divino Maestro. Ebbe solo un potere morale e spirituale su Gesù, quando gli chiese sommessamente, ottenendo, che una festa di nozze non fosse compromessa dalla mancanza di vino, oppure quando a Pentecoste, senza nulla chiedere in modo esplicito, su di lei, tempio per eccellenza dello Spirito Santo, e sugli apostoli raccolti in sua presenza, sarebbe disceso quest’ultimo in modo e con effetti prodigiosi. Per il resto, tutta la vita di Maria è quella di una donna senza potere, di una delle tante donne spesso in balìa di un potere ingiusto, malvagio, crudele, o, nel migliore dei casi, del tutto indifferente al destino, e persino alle più piccole necessità esistenziali, di uomini e donne. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Sono pochi o molti quelli che si salvano? Sono moltitudini tutto sommato abbastanza esigue di persone oppure masse sterminate di esseri umani a salvarsi? Questa domanda viene posta al Signore non da un sacerdote del Tempio, non da un dottore della Legge, né da farisei o sadducei, ma da un individuo anonimo, da un tizio qualunque. Non capisco perché qualche nostro sacerdote contemporaneo avverte talvolta il bisogno, nel corso delle sue omelie, di chiosare come Gesù non risponderebbe direttamente a tale domanda, ritenendola mal posta, ma solo in modo indiretto, a voler sottolineare che la domanda giusta da porre sarebbe stata piuttosto un’altra: mi salverò io? Perché, spiegano alcuni presbiteri, invece di pensare alla salvezza altrui è necessario pensare alla propria salvezza. Ma, in realtà, il testo di Lc 13, 22-30, non induce affatto a pensare che l’autore di quella domanda, nel formularla, non abbia inteso includere in essa anche se stesso e il suo destino ultraterreno. Anzi, prevedendo come scontata la risposta di Gesù a una domanda troppo personale, egli evita di rivolgergliela, optando per una domanda di carattere generale e di evidente importanza teologica. Cosa avrebbe potuto rispondere il Maestro a chi gli avesse chiesto: “Signore, io mi salverò, potrò salvarmi io?”, se non che, riproponendo la spiegazione data a uno scriba in una diversa occasione, si sarebbe salvato se avesse agito e vissuto secondo i divini comandamenti, amando Dio e il suo stesso prossimo (Mc 12, 28-34)? D’altra parte, Gesù non rimprovera, sia pure bonariamente, il suo interlocutore, e non lo redarguisce perché considera corretta e sensata la sua domanda, tanto da limitarsi a rispondere con grave serietà che, per conseguire la salvezza, tutti, senza distinzioni di sorta, si sarebbero dovuti sforzare «di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno». Continua a leggere