Ci saranno ancora un cielo e una terra dopo la fine del mondo, ma saranno governati da leggi completamente diverse da quelle che regolano le realtà astrali e terrestri dell’universo e da condizioni ambientali perfettamente funzionali a forme immortali e gioiose di vita. Allora la vita apparirà totalmente rinnovata da Dio che abiterà stabilmente, visibilmente e concretamente in mezzo alle sue creature. Il vero sovrano del regno celeste sarà Cristo, il Figlio di Dio, al cui potere il Padre sottometterà tutti i regni e i popoli della terra e su di essi governerà gloriosamente per l’eternità. Ma, in realtà, Cristo era stato già glorificato in terra quando aveva assecondato la volontà del Padre lasciandosi prima tradire non da un nemico ma da uno dei suoi discepoli, cioè Giuda, e poi affrontando la morte in espiazione dei peccati di tutti. Gesù era stato glorificato da Dio-Padre per il suo sacrificio d’amore, così come Dio-Padre era stato glorificato dal e nel Figlio per avergli questi prestato obbedienza per amore filiale e per amore verso le creature umane. Continua a leggere
Pensiero della settimana
Citazione
Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice Gesù. Non la lingua che parla perché le pecore non possono capire ciò che il Signore dice, ma la voce, il timbro della voce, il tono della voce. Per essere di Dio, è necessario l’ascolto, non necessariamente una capacità di esaustiva comprensione intellettiva, di approfondimento critico, ma la capacità istintiva o intuitiva di riconoscerlo, senza confonderlo con altri che pure, in apparenza, potrebbero sembrar pronunciare le sue stesse parole o fare i suoi stessi discorsi. E’ come per i neonati che riconoscono la madre non da quello che dice ma da come lo dice, dal modo in cui si relaziona con essi, dal modo in cui si sentono amati e curati, talvolta persino teneramente sollecitati a smettere di piangere o a non rifiutare il latte o il cibo anche in assenza di apparenti cause fisiche che potrebbero esserne alla base. Le pecore si fidano, e noi tutti dovremmo fidarci, di Cristo non solo per le cose che dice ma innanzitutto per il modo in cui le dice, per la percezione del fatto che di quella voce, di quelle sollecitazioni, di quei comandi ci si possa fidare. Peraltro, come recita il salmo 23, il buon pastore, per guidare il gregge, si avvale di un bastone e di un vincastro: di un bastone (la fede) che, da una parte, rende più stabile e sicuro il cammino del pastore davanti al gregge e a favore del gregge, e dall’altra egli usa e brandisce, se necessario, contro animali o uomini malvagi che potrebbero voler arrecare danno al gregge stesso; e di un vincastro che è un vimine, solitamente di salice, tenero e flessuoso, con cui egli stimola dolcemente pecore e agnellini sfiorandoli sui fianchi per farli camminare, per tenerli insieme e per evitare che alcuni o molti di essi possano allontanarsi dalla via maestra. Continua a leggere
Pensiero della settimana
Citazione
Chi risorge conserva la propria identità personale, pur acquisendo qualità fisiche e mentali differenti da quelle possedute nella vita terrena. Ciò significa che conserverà la propria coscienza, la propria individualità e la propria sensibilità, la propria storia personale, anche se in un contesto ormai profondamente mutato rispetto a quello precedente della vita mortale. Risorgere ad una eterna vita di gloria e beatitudine comporta l’accesso ad un ordine di cose impensabile durante la vita terrena e ad un’esperienza esistenziale inedita e radicalmente diversa dal novero delle esperienze storico-mondane. Chi avrà il privilegio di rinascere nell’originario ed eterno Regno di Dio, in cui saranno confluite tutte le conquiste più mirabili e generose dell’ingegno, dell’amore e dello spirito umani, si troverà al cospetto di Dio e della sua moltitudine angelica che, come ricorda l’Apocalisse giovanneo, sarà intenta a celebrare le prodigiose gesta terrene e la straordinaria opera salvifica del Figlio di Dio, dell’Agnello sacrificale, immolatosi per la salvezza del genere umano: «miriadi di miriadi e migliaia di migliaia» di spiriti angelici «dicevano a gran voce: l’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione» (Ap 5, 11). Continua a leggere
Conclave: appello ai cattolici per attuare insieme la richiesta di Fatima di un papa santo*
Citazione
Cari fedeli della Chiesa cattolica,
di fronte alle sfide dei tempi difficili che stiamo vivendo, in particolare l’unità della Chiesa e la pace nel mondo, milioni di cattolici, clero e laici, desiderano giustamente pregare affinché il Cielo ci mandi un papa santo, un vicario di Cristo pio e zelante che guidi la Chiesa nella fedeltà al suo insegnamento bimillenario. In un magnifico impeto di fede spontanea, vediamo l’organizzazione di molteplici novene e diverse iniziative di preghiera nascere dal cuore di ogni persona, ovunque.
Ma è questo tutto ciò che il Cielo aspetta per ripetere il suo intervento del 1903, quando un papa santo, Pio X, fu eletto inaspettatamente in un periodo di tumulti simili? Osserviamo le circostanze: si può notare che questo conclave inizierà qualche giorno dopo il primo sabato di maggio e probabilmente terminerà poco prima del 13 maggio, anniversario della prima apparizione di Fatima. Questo conclave avrà luogo anche nel 2025, anno del centenario della richiesta dei primi sabati di Fatima. Qui non c’è alcuna “coincidenza”. Dopo la morte di Suor Lucia nel 2005, Carlo Acutis vide in sogno il veggente di Fatima, dicendogli che «la pratica dei primi sabati del mese avrebbe potuto cambiare il destino del mondo», e nel 2010 Benedetto XVI ricordò che la missione profetica di Fatima non era finita.
Se vogliamo pregare efficacemente per un papa santo e per la pace, è dunque essenziale porci la domanda: cosa ci ha chiesto la Madonna a Fatima? La Santa Madre della Chiesa promise il suo trionfo e la sua pace a due condizioni: la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato da parte del Papa E la pratica dei primi sabati del mese in tutta la Chiesa. Questa seconda richiesta, legata al rosario, ci riguarda tutti, ma è spesso dimenticata. Questa non è solo un’altra preghiera o devozione. Questo è l’atto di obbedienza che il Cielo attende per concederci la pace e del quale Suor Lucia specificherà nel 1957 che «Dio vuole questo mezzo e nessun altro».
Per avere un papa santo, non c’è altra alternativa che esaudire questa richiesta del Cielo e la Madonna lo ha chiaramente sottolineato: «Se facciamo quello che sto per dirvi, molte anime si salveranno e avremo la pace». Perché il Cielo vuole un atto di obbedienza? Perché l’obbedienza, complemento indispensabile della preghiera, è l’atto di abbandonare la propria volontà a beneficio di quella di Dio. È l’atto di umiltà e di amore assoluto verso Dio. Quindi è giunto il momento per tutti di unirsi a questo conclave in obbedienza alla Santa Vergine, implorandola con qualsiasi mezzo scelga di darci in cambio un papa santo.
* Firmato: Régis de Lassus (Alleanza 1° Sabato di Fatima), Isabelle Manceron (Rosario perpetuo), Thomas Delenda (Hozana/Rosario), Jean Baptiste Maillard (Luci nell’oscurità), Yves de Lassus (Cap Fatima), Olivier Bonnassies (Marie de Nazareth), Philippe Darantière (ND di Chrétienté) del Centre International Marie de Nazareth, 3 maggio 2025.
Pensiero della settimana
Citazione
I discepoli, terrorizzati dalla persecuzione ebraica che si era scatenata su essi dopo la crocifissione di Gesù, erano rinserrati nel loro rifugio allorché questi, del tutto inaspettato, vi appare all’improvviso in modo miracoloso, mostrando loro le mani e il fianco recanti i segni inconfondibili della crocifissione, quasi a voler dimostrare a tutti, senza giri di parole, di non essere né un fantasma, né uno spirito solo illusoriamente dotato di apparenze corporee, ma di essere lui, con la sua persona, con il suo corpo, con la sua carne, del tutto identico a quello che era stato prima di morire sulla croce e prima di essere sepolto. Il Signore si preoccupa di fugare immediatamente nei suoi discepoli ogni dubbio, ogni possibile o reale sussulto di incredulità, perché sa bene che, per quanto già amato e adorato da essi quale Figlio di Dio in virtù dei prodigi compiuti e delle parole pronunciate nel corso della sua terrena missione di salvezza, persino la fede più solida e ardente può essere soggetta a qualche momento di incertezza, di perplessità, se non di paura, allorché un corpo visto morto, cadavere, e poi sepolto e chiuso, anzi ermeticamente sigillato in una grotta di roccia con un blocco imponente e inamovibile di pietra, appaia di nuovo in vita e nel pieno delle sue funzioni fisiche, psichiche e intellettive.
Cristo non risorge in senso meramente spirituale, metaforico, simbolico, teologico; Cristo risorge fisicamente, corporalmente, materialmente, senza perdere la sua originaria fisionomia, i dati costitutivi della sua identità personale, il tono e il timbro della voce, le espressioni dello sguardo, il modo di muoversi e gesticolare. Il Risorto è la stessa persona che era prima di morire con l’aggiunta, di inestimabile valore esistenziale, dell’immortalità. Egli, come di consueto, augura la pace, la sua pace ai discepoli, vale a dire la serenità, la gioia, il benessere fisico e spirituale che corrispondono alla condizione esistenziale in cui sono destinati a trovarsi e a vivere quanti lo abbiano seguito o intendano seguirlo fedelmente, sia pure tra cadute e contraddizioni dolorose, durante la vita terrena. Cristo mostra così, in modo ormai inequivocabile, il senso ultimo della sua passione e morte: la salvezza dell’uomo e della donna in quanto sarx, in quanto unità creaturale inscindibile di anima e corpo, in quanto esistenza personale nella totalità o pienezza delle sue funzioni fisico-sensoriali e intellettive e spirituali, in quanto corporeità abitata e animata da una energia pneumatica. Continua a leggere
Pensiero della settimana
Citazione
Ho sentito un ispirato predicatore parlare così della Pasqua di risurrezione. Il problema non è solo risorgere ma è anche e soprattutto risorgere alla vita e non alla eterna dannazione. Per risorgere, infatti, bisogna voler risorgere e bisogna che Dio decida di farti risorgere ad una vita di beatitudine piuttosto che ad una vita di dannazione. Per risorgere come uomini bisogna sforzarsi di essere e vivere ad immagine e somiglianza di Dio, di onorarne le leggi e conformarsi alla sua volontà, rinunciando al culto esasperato o idolatrico del proprio io e ponendosi al servizio delle legittime e giuste esigenze del prossimo. Per risorgere bisogna supplicare Dio di inondarti della sua grazia e del suo spirito di giustizia, nonostante i tuoi peccati e la tua difficoltà a confidare nel buon senso e nell’amore dei tuoi simili, e bisogna soprattutto resistere alla tentazione di dare troppa importanza ai comportamenti e alle parole di quanti, profondamente assuefatti a sbrigative e consuetudinarie logiche di vita mondana, di giudizio e di condanna, vorrebbero indurti a sentirti molto più inutile e dannoso di quel che realmente sei. Bisogna anche pregare affinché l’odio spesso spropositato o abnorme che altri rovesciano sulla tua inquieta ma difficile e contrita esistenza, si trasformi in causa di ravvedimento e conversione per essi e in occasione di espiazione e riscatto per la tua stessa anima. Per risorgere non devi sperare di essere ringraziato né per le tue buone intenzioni, né per le tue buone azioni, perché sarai sempre debitore per l’amore e il perdono che ti saranno stati elargiti da Cristo e per le impreviste manifestazioni di affetto che qualcuno avrà voluto trasmetterti. Per risorgere non ci si affiderà mai abbastanza alle cure pietose della Madre celeste e non si sarà mai così intimamente provati da potersi ritenere abbandonati da Dio. Non sentirti mai una vittima, anche se dovessi esserlo stata, né la creatura più sfortunata, perché le creature più duramente partecipi della insopportabile passione del Cristo saranno le prime a risorgere nel suo immortale regno di festa. Non limitarti a dire: buona Pasqua di risurrezione, ma grida a chiunque possa ascoltarti: Cristo è realmente risorto! Sforzati di rimanere sulle sue orme e risorgerai avvolto nella sua luce gloriosa. Tu, che hai sentito la sua voce, sforzati di seguirlo fino al calvario e rinascerai con lui alla vita eterna. Non eviterai la prima morte ma essa, in e con Cristo, sarà battesimo di sicura e definitiva redenzione.
Francesco di Maria
Pensiero della settimana
Citazione
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno», dice il peccatore pentito. E Gesù gli risponde: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23, 42-43). Allora: c’è Gesù e c’è un regno, c’è un paradiso, un luogo non terreno chiamato paradiso; Gesù ne è il Signore incontrastato, Gesù ha un regno, il più potente dei regni esistiti o esistenti, e il suo regno è un regno spirituale ma è anche un regno materiale con tanto di invincibili legioni angeliche e il peccatore gli chiede di ricordarsi di lui non semplicemente quando si sarà ricongiunto con il Padre, ma quando entrerà appunto in quel regno che non potrà mai finire. Quel che non si capisce è perché certi presbiteri, certi prelati più o meno alti, certi eminenti ecclesiastici, sentono sempre più frequentemente il bisogno di dematerializzare il più possibile il regno di cui parla il Cristo e di fare del paradiso non anche un luogo con tanto di luce e scenari straordinari, di odori, di suoni, di sapori, di esaltanti esperienze conoscitive e visive, tattili, uditive, gustative, ma semplicemente un simbolo di spiritualità, sicchè alla domanda cos’è il paradiso, questi dottissimi ma infedeli interpreti della Bibbia, convinti di dare prova di purissimo e disinteressato amore per il loro Signore, finiscono per dare una risposta infallibile ma ambigua: il paradiso è stare con Cristo. Ma, spiegano, ciò significa che esso non è un luogo ma solo uno stato, una condizione spirituale. Infallibile risposta, certo, ma non molto esplicativa e soprattutto meno concreta e precisa, anzi ben più evasiva di quella inequivocabilmente emergente dai sacri testi e dalle stesse parole di Gesù che, dotato di un infinito potere spirituale, è anche fonte di un infinito potere materiale e promette non vita spirituale ma vita tout court, vita integrale, vita totale, vita in pienezza. Gesù, se è venuto a salvare la carne, i corpi degli esseri umani, evidentemente deve essere venuto a salvare anche la luce, i colori, i suoni, i sapori, i gusti, le emozioni, la sensibilità di cui quella carne e quei corpi constano e da cui, nella loro specifica realtà, essi non possono separarsi se non per non esistere come tali, ovvero come corpi sensibili ma finiti in terra e come corpi trasfigurati e immortali in cielo, ovvero come corpi gloriosi non più soggetti a peccato, malattia, dolore, morte. Dire che il paradiso consiste semplicemente nello stare con Gesù significa dire il vero a condizione che tale concetto venga implicando lo stare non solo in un generico e astratto stato di beatitudine ma anche in un luogo spiritualmente e materialmente, moralmente e sensorialmente idoneo a favorire ogni genere di beatitudine, ogni genere di effettivo e lecito godimento esistenziale. Quando Gesù, prima di morire crocifisso, afferma solennemente: «da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio» (Lc 22, 18), è evidente che allude al vino, a quell’inebriante frutto terreno e segno di allegria e di gioia conviviale, di festa, che avrebbe dovuto segnare il ritorno dell’umanità nelle braccia del Padre e l’inizio della sua vita immortale. Sarebbe potuto morire Cristo sulla croce solo per regalare all’umanità uno stato dell’anima? Ma in cosa consisterebbe questo stato dell’anima? In una semplice condizione estatico-contemplativa o in che cosa? La vita eterna, promessa da Cristo, non può essere ridotta a un semplice, ambiguo e insignificante stato dell’anima. Questo è un concetto ancora platonico, non cristiano. E’ un concetto completamente antitetico all’evento evangelico-escatologico della risurrezione dei corpi. Chi identifica il paradiso con uno stato piuttosto che con un luogo, ma si dica pure con uno stato e nient’affatto con un luogo, ancora non ha compreso che la carne è morta senza spirito ma che lo spirito è una pura e insulsa astrazione senza carne, senza sarx. Si sente dire spesso che il paradiso avrebbe un significato più esistenziale che spaziale ma esso, se non è anche un luogo, un universo, per quanto molto diverso dagli universi astronomici di nostra conoscenza, non può avere alcun significato esistenziale, perché la vita è processo vitale, è svolgimento, progresso, e tutto ciò non può aver luogo in modo puramente etereo, immaginario, simbolico, ma solo all’interno di un qualche contesto materiale, relazionale e situazionale. Viene il dubbio che quanti mettono in dubbio il paradiso come luogo, come vita attiva, dinamica, in movimento, in fondo non credano realmente nella vita del mondo che verrà, come recita il credo niceno-costantinopolitano, e, ancor meno, nella risurrezione dei morti. Che il mondo che verrà sia un mondo sovraspaziale, sovratemporale, sovrastorico, non c’è dubbio, ma questo non significa che esso sia privo di determinate dimensioni, configurazioni, leggi o assetti, che esso non abbia orizzonti, ambienti, spazi anche se completamente inediti e diversi da quelli terreni, spazi per esempio in cui i risorti abbiano la facoltà di passare attraverso i muri o le porte. Tra mondo naturale e mondo sovrannaturale sussisteranno evidentemente profonde differenze quantitative e qualitative, come si evince anche dal fatto che nel primo si muore mentre nel secondo non si può morire, ma, in entrambi i casi, si tratta di mondi, con le loro strutture, i loro processi, le loro dinamiche, la loro interna organizzazione. Se si vuol fare professione di vera fede, di realismo evangelico e non di «chiacchiera pseudo-devozionale» o «delirio mistico», bisogna essere persuasi che, rispetto a questa vita ordinaria, anche noi saremo quell’oltre rappresentato da Gesù il Salvatore, anche i nostri corpi, se Dio vorrà, «godranno della docilità che il suo corpo manifestò in vita (camminare sulle acque, comandare agli spiriti immondi) e soprattutto dopo la sua morte (sepolcro vuoto, lini piegati, apparizioni di un non-fantasma, epifanie di un non-ologramma). E’ la buona notizia, la vittoria sulla morte, che la chiesa contemporanea non ha sempre il coraggio di attestare, per timore di critiche da parte di uno scientismo supponente e per il vistoso privilegio pastorale concesso ad iniziative di carità terrena» (P. Sequeri, D, Bonazzoli, F. Manzi, E la vita del mondo che verrà, Milano, Ed. Vita e Pensiero, 2024).
Francesco di Maria
Jacques Ellul, un cristiano “anarchico” al servizio di Dio
Citazione
Gli anarchici sono atei e nemici dello Stato, i cristiani sono credenti e non demonizzano lo Stato se non nel caso in cui esso, travalicando i legittimi poteri istituzionali che è tenuto ad esercitare nell’ordine delle cose temporali e quindi per il soddisfacimento delle necessità materiali e civili della collettività amministrata, intenda infrangere legislativamente i comandamenti di Dio e imporre pratiche sociali e condotte di vita contrarie alla fede e al culto, interferendo direttamente o indirettamente nella vita spirituale dei sudditi o dei cittadini. D’altra parte cristiani e anarchici, da un punto di vista storico-dottrinario, si detestano reciprocamente. Ma il filosofo francese Jacques Ellul, convertitosi al cattolicesimo dopo una prima, giovanile esperienza marxista e antifascista, in una delle sue ultime opere avrebbe ritenuto di poter trovare significativi punti di contatto tra pensiero anarchico e pensiero cristiano nella opposizione di entrambi alle autorità storiche costituite e nella loro avversione al potere politico-statuale1. Verso la fine degli anni ’30, il giovane professore universitario di diritto, si sentiva ancora marxista o, almeno, vicino alle posizioni di Marx, in particolare alla sua teoria dell’estinzione dello Stato, benché il pensatore di Treviri, diversamente da quel che molti suoi epigoni, anche in pieno novecento, avrebbero inteso, e da quel che allo stesso Ellul parve allora di capire, non all’estinzione dello Stato amministrativo o Stato dei servizi avesse fatto riferimento ma a quella dello Stato politico2. Continua a leggere
Un’immagine esistenzialista della fede: Jean Paul Sartre
Citazione
Se l’esistenzialismo heideggeriano è un esistenzialismo ontologico e metafisico, l’esistenzialismo sartriano è un esistenzialismo umanistico e storico-fenomenologico nel senso che, al centro dell’esistenza, non è un qualche essere indefinito e pensato come suo presupposto e scopo, ma l’essere stesso dell’uomo come individuo dotato di bisogni materiali e relazionali, di attitudine naturale alla socievolezza, di vocazione alla vita politica e sociale, di propensione ad esercitare la sua libertà nei confronti dei molteplici condizionamenti del suo orizzonte esistenziale e il suo impegno etico a favore della propria e altrui libertà, perché è attraverso l’altro e il diverso da sé che può venire definendosi il proprio io e risulta possibile lottare per il perseguimento di ciò che ancora non è e non sarà mai abbastanza l’essere compiuto, il bene compiuto, che si vorrebbe1. L’uomo non ha una natura predeterminata, non ha un’essenza che preceda la sua esistenza, cioè il suo tirarsi fuori da forme preordinate o precostituite di esistenza, perché la sua natura non è definibile aprioristicamente ma solo nel corso del suo farsi, del suo agire. Prima di vivere, egli non è nulla, nulla di precostituito. La natura umana non è prima dell’esistenza umana ma è o può definirsi solo una natura acquisita. L’esistenza individuale è un’esistenza relazionale e intenzionale che crea mentre distrugge, che inventa sempre nuove possibilità di esistenza nel porre continuamente in discussione le forme già date di esistenza, che elabora valori inediti e originali attraverso una critica e un superamento di quelli esistenti in quanto predeterminati nella loro staticità e inautenticità. Continua a leggere
Pensiero della settimana
Citazione
La parabola del figliol prodigo, oggi giustamente rinominata come parabola del padre misericordioso dall’autorità biblico-teologica cattolica, in realtà può essere applicata almeno a tre diversi e ipotetici casi, che sono però caratterizzati dalla stessa dinamica relazionale, quella dell’improvvido o ingiusto abbandono: un figlio abbandona il padre, non malvagio o dispotico ma amorevole verso i figli e rispettosissimo della loro libertà, per affrontare in piena autonomia di coscienza e azione, e al di fuori di ogni diretto o indiretto condizionamento paterno, la vita e il mondo verso cui si sente chiamato; un battezzato in Cristo, e membro della sua Chiesa universale ovvero cattolica, a un certo punto della sua vita lascia la chiesa locale che aveva frequentato durante l’infanzia e l’adolescenza, sentendosi da essa non compreso e non valorizzato spiritualmente e compiendo tuttavia l’errore di recidere per lungo tempo i legami con la comunità ecclesiale non solo in senso psicologico e relazionale ma anche in senso dottrinario e sacramentale; un essere umano, una creatura si allontana da Dio e dalla sua legge reclamando maggiore libertà di pensiero e scelta in rapporto a quelli che vengono soggettivamente percepiti non solo come desideri ma proprio come bisogni inderogabili della propria esistenza personale. Quel figlio, dopo aver fatto esperienza del mondo esterno come esperienza di gran lunga più soffocante e frustrante della precedente e più familiare esperienza, capisce di aver operato una scelta sbagliata e per niente affettuosa e rispettosa nei confronti del padre, e sia pure di un padre tanto amorevole quanto autorevole e moralmente intransigente e non esente da limiti e difetti, e si prepara, pertanto, a chiedere perdono per il suo riprovevole o almeno ingeneroso comportamento con la speranza di essere riaccolto nella sua famiglia d’origine. Quel battezzato, pur potendo dar prova finalmente delle sue capacità, del suo ingegno e della sua sensibilità, al di fuori della comunità religiosa di appartenenza e in altri ambiti della vita civile, come l’università, il mondo del lavoro e dei non regolamentati scambi interpersonali e ancora un mondo affettivo e sentimentale libero da doveri o obblighi di tipo confessionale o patriarcale, ad un certo punto si rende conto che l’aver potuto sprigionare energie intellettive ed emotive prima represse o bloccate, o quanto meno troppo rigidamente disciplinate, non abbia coinciso con la svolta sperata e non abbia ancora costituito quella pur sperata opportunità di realizzazione personale che avrebbe dovuto consentirgli di superare il suo precedente stato di mancata integrazione nel mondo, e allora decide di tornare umilmente ai vecchi ambiti parrocchiali e comunitari di vita per onorare il Signore sia pure nei limiti in cui gli fosse stato consentito dal prossimo e da Dio stesso, comprendendo che probabilmente non tanto l’educazione familiare, né l’educazione e la formazione religiose ricevute in parrocchia, né ancora i rapporti interpersonali avuti prevalentemente in essa e indubbiamente angusti e limitativi, quanto alcuni altri fattori non ancora precisamente individuati dovevano aver costituito la causa principale della sua mancata capacità di comunicare e interagire proficuamente con gli altri e il mondo. Infine, quella creatura, che, al di là di pur non trascurabili condizionamenti esterni, decide deliberatamente di allontanarsi da Dio e dal suo insegnamento, rivendicando il diritto di appagare tanto i suoi desideri psico-fisici quanto le sue molteplici esigenze ed aspettative esistenziali, comprende che non esiste esperienza umana e spirituale più faticosa ma anche più soddisfacente e un insegnamento più gratificante e salvifico di quelli che possono essere acquisiti, vissuti e conosciuti restando nell’orizzonte della sapienza o del logos e della passione o della croce di Cristo. E, al suo ritorno nella casa del padre, da questi si sente dire: “sono felice che tu, attraverso una libera, concreta e intensa esperienza di vita, abbia continuato a trovare nel mio amore e nel mio spirito di giustizia la base e lo scopo della tua esistenza e a riconoscermi come Padre insostituibile e necessario, ma devi tener presente, da oggi in avanti, che se un padre giusto e veramente affettuoso, per esser tale, non può sempre essere come un figlio o una figlia lo vorrebbero, questi ultimi dovrebbero mostrarsi felici e grati di poter somigliare, sempre più o meglio possibile, a un padre saggio e misericordioso che tenga al bene dei suoi figli prima e più che al loro immediato o facile consenso”.
Francesco di Maria